(1)(2)Qualunque fatto(3) doloso o colposo(4), che cagiona(5) ad altri un danno ingiusto(6), obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno 2058(7).
Note
(1)
Si riporta l’art. 3, comma 1, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modifiche, nella L. 8 novembre 2012, n. 189: “L’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Successivamente, tale disciplina è stata sostituita con quella prevista dal terzo comma dell’art. 7 della c.d. “Legge Gelli-Bianco” n. 24 dell’8 marzo 2017 (Responsabilità professionale del personale sanitario), la quale prevede, in merito alla responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, che “L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590 sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”.
(2)
La norma introduce la c.d. responsabilità extracontrattuale che sorge, sinteticamente, quando un soggetto subisce un danno dalla condotta di altri e tra di essi manca un rapporto obbligatorio. Essa si contrappone alla responsabilità contrattuale che nasce quando vi è tale rapporto ed esso è inadempiuto (1218 c.c.).
La dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno teorizzato l’esistenza di un’altra forma di responsabilità, c.d. da contatto sociale, che nasce quando tra danneggiante e danneggiato non c’è un rapporto obbligatorio ma non c’è nemmeno estraneità. Si discute se, strutturalmente, essa vada ricondotta all’illecito aquiliano o a quello contrattuale (tesi prevalente), con applicazione della relativa disciplina. Un esempio di tale forma di responsabilità è rinvenuto nell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nelle trattative precontrattuali (1337 c.c.).
(3)
Fatto è qualsiasi azione umana, commissiva ovvero anche omissiva se viola un obbligo di attivarsi imposto dall’ordinamento. Può trattarsi anche di un fatto materiale, cioè indipendente dalla condotta dell’uomo (ad esempio, il cornicione di un palazzo che si stacca e cade al suolo) se l’ordinamento, per una precisa ragione, lo ascrive all’uomo (ad esempio perché proprietario del palazzo, 2053 c.c.).
(4)
Tali espressioni identificano l’elemento soggettivo dell’illecito e la loro definizione è mutuata dal diritto penale (43 c.p.). Il dolo (da non confondersi con gli artifizi e raggiri di cui agli art. 1439, 1440 c.c.) consiste nella coscienza e volontà di realizzare una condotta dannosa. La colpa consiste in negligenza, imprudenza, imperizia (valutate alla stregua dell’art. 1176, comma 1 c.c.) ovvero nella inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
In alcune fattispecie il legislatore prescinde dal dolo e dalla colpa per fondare una responsabilità oggettiva (ad esempio, nel caso di padroni e committenti ex art. 2049 c.c.).
È necessario che tra fatto illecito ed il danno sussista un nesso di causalità. Per stabilire quale tra le azioni sia causa dell’evento si fa riferimento, anche qui, al diritto penale (40 c.p.) e, nello specifico, alla teoria della causalità materiale in base alla quale una condotta è causa di un evento se e solo se essa ne è condicio sine qua non, cioè condizione senza la quale l’evento non si sarebbe prodotto; per verificare quando sussista questo nesso si guarda alla c.d. causalità adeguata, per cui la condotta è causa quando, normalmente, è idonea a cagionare quell’evento.
(6)
Con la nozione di danno ingiusto si fa riferimento, innanzitutto, al danno evento, che identifica i beni giuridici la cui violazione può originare il diritto al risarcimento. Esso è talvolta già tipizzato dal legislatore (ciò accade, ad esempio, per i reati). Tuttavia, fuori da queste ipotesi, l’elaborazione giurisprudenziale ha compiuto un lungo percorso volto ad estendere la categoria dei beni tutelati. Così, si è partiti dalla rilevanza dei soli diritti assoluti (anni ’40), per passare a quella dei diritti di credito (c.d. caso Meroni, Cass., SS.UU., 26 gennaio 1971, n. 174), delle situazioni di fatto (ad esempio il possesso) e giungere con la storica sentenza Cass., SS.UU., 22 luglio del 1999, n. 500 alla tutela dell’interesse legittimo. Affinché la condotta realizzi tale danno è necessario, ovviamente, che essa non sia tenuta in presenza di una causa di giustificazione (2044 ss. c.c.).
(7)
Il danno ingiusto si riferisce anche al c.d. danno conseguenza che indica quali siano le conseguenze dannose, economicamente valutabili che, derivando dalla lesione del bene, attribuiscono il diritto al risarcimento. Essi si distinguono in danni patrimoniali, cioè lesioni al patrimonio economico del soggetto, e non patrimoniali, che si sostanziano nei pregiudizi ad interessi della persona non aventi rilevanza economica. I primi, a loro volta, si sviluppano nel danno emergente e nel lucro cessante (1223 c.c.). In ordine ai secondi le teorie più recenti parlano di danno biologico, danno morale e danno esistenziale (2059 c.c.).