Corte di cassazione civile, sez. V, ord., 15 aprile 2024 n. 10076
Svolgimento del processo
- L. R. proponeva dinanzi alla CTP di Lodi ricorso avverso un avviso di liquidazione con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva accertato una maggiore imposta di donazione con riferimento ad un trust (denominato “P. Trust”) con il quale egli aveva trasferito ad un trustee (la U. s.r.l.) le quote di partecipazione possedute in una società, indicando quali beneficiari sé stesso, la coniuge (S. S.) ed il figlio (L. T.).
- La CTP accoglieva il ricorso.
- Sull’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate, la CTR Lombardia accoglieva il gravame, affermando che era stata validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario, da parte del preposto al reparto competente, anche in mancanza della esibizione in giudizio della corrispondente specifica delega del funzionario che aveva sottoscritto il gravame, non avendo il contribuente eccepito e provato la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza, e che il trust rientrava nell’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni, quale diretta conseguenza della segregazione dei beni che esso produce, rilevando sul piano fiscale la costituzione del vincolo di destinazione su determinazione su determinati beni.
- Avverso la sentenza L. R. ha proposto ricorso per Cassazione sulla scorta di dodici motivi. L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
- Con il primo motivo il ricorrente deduce l’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., in ordine alla domanda di annullamento dell’avviso di accertamento per vizio di legittimazione del soggetto che lo aveva sottoscritto, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), c.p.c.
- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta, in subordine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 42 D.P.R. n. 600/1973, sempre in ordine alla validità della sottoscrizione dell’avviso di accertamento originariamente impugnato, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.
- I due motivi, da trattarsi congiuntamente siccome strettamente connessi, sono infondati.
In primo luogo, non si è senz’altro al cospetto di una omissione di pronuncia, se solo si considera che la CTR ha inequivocamente affermato, da un lato (pag. 2 della sentenza qui impugnata), che il Ministero delle Finanze (oggi ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate), cui gli artt. 10 e 11, secondo comma, D.L.vo n. 546/1992 riconoscono la qualità di parte processuale (e, quindi, la capacità di stare in giudizio), è organicamente rappresentato dal direttore “o da altra persona preposta al reparto competente” (“da intendersi con ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze, senza necessità di speciale procura”) e, dall’altro lato (pagg. 3-4 della sentenza), che, in mancanza di una eccezione e di una prova in ordine alla non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante (o, comunque, in ordine all’usurpazione del potere di impugnare la sentenza), non vi era alcuna necessità di esibizione di una specifica delega del funzionario che aveva sottoscritto l’appello, ai fini dell’ammissibilità dell’atto.
In secondo luogo, la decisione è in linea con l’orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di contenzioso tributario, gli artt. 10 e 11, comma 2, del D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio del Ministero delle finanze (oggi ufficio locale dell’Agenzia delle entrate) nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze, senza necessità di speciale procura; ne discende che, nel caso in cui non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, questo deve ritenersi ammissibile, ancorchè recante in calce la firma illeggibile di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, finchè non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà (Cass., sez. 5, Sentenza n. 874 del 15/01/2009). In particolare, l’art. 11, comma secondo, del D.L.vo 31 dicembre 1992, n. 546, attribuendo la rappresentanza processuale dell’Amministrazione all’Ufficio, senza che assuma rilievo determinante chi lo rappresenta, consente di presumere che l’atto processuale proveniente dall’Ufficio rappresenti ed esprima la volontà di quest’ultimo, fino a prova contraria, la quale, avendo ad oggetto un’usurpazione di poteri, ossia un’anomala patologia del rapporto organico che comporta una distorta formazione della volontà processuale, dev’essere necessariamente fornita da chi la faccia valere; pertanto, quando l’atto (nella specie, l’appello) provenga da un’Amministrazione dello Stato e non se ne contesti la provenienza, l’illeggibilità della firma del sottoscrittore non rileva, a meno che non se ne affermi la falsità o si deduca l’appartenenza del funzionario che lo ha sottoscritto ad un altro settore dell’Amministrazione (Cass., sez. 5, Sentenza n. 12768 del 29/05/2006).
In quest’ottica, ai sensi dell’art. 42 D.P.R. n. 600/1973, gli avvisi di accertamento devono essere sottoscritti dal capo dell’ufficio “o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”, a prescindere dal possesso della qualifica dirigenziale (Cass., sez. 5, Sentenza n. 22810 del 09/11/2015; conf. sez. 5, Ordinanza n. 5177 del 26/02/2020).
Del resto, la sottoscrizione dell’atto di appello, pur non competendo ad un qualsiasi funzionario sprovvisto di specifica delega da parte del titolare dell’Ufficio, deve ritenersi validamente apposta quando proviene dal funzionario preposto al reparto competente, poiché la delega da parte del titolare dell’Ufficio può essere legittimamente conferita in via generale mediante la preposizione del funzionario ad un settore dell’Ufficio con competenze specifiche (Cass., sez. 5, Sentenza n. 13908 del 28/05/2008; conf. Cass., sez. 5, Ordinanza n. 20599 del 19/07/2021). Ciò alla luce del consolidato principio per cui l’ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate è rappresentato in giudizio dal titolare dell’organo che, qualora non intenda trasferire il potere di rappresentanza processuale ad altro funzionario, può demandare, nell’esercizio dei poteri di organizzazione e gestione delle risorse umane, la sola materiale sottoscrizione dell’atto difensivo ad un “delegato alla firma”, mero sostituto nell’esecuzione di tale adempimento, sicché, ove l’atto difensivo sia stato sottoscritto dal delegato alla firma con la chiara indicazione della relativa qualità (ad esempio, con formula “per il dirigente”), l’ufficio periferico deve presumersi ritualmente costituito in giudizio a mezzo del dirigente legittimato processualmente, non essendo sufficiente la mera contestazione per fare insorgere l’onere in capo all’Amministrazione finanziaria di fornire la prova dell’atto interno di organizzazione adottato dal dirigente (Cass., sez. 5, Sentenza n. 20628 del 14/10/2015).
Solo nel caso in cui l’avviso di accertamento sia nullo, ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per non recare la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, l’Amministrazione finanziaria, in caso di contestazione è tenuta a dimostrare la sussistenza della delega (Cass., sez. 5, Sentenza n. 17044 del 10/07/2013; conf. Cass., sez. 5, Sentenza n. 12781 del 21/06/2016).
- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, avuto riguardo all’illegittima applicazione dell’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione in contrasto con la disciplina armonizzata sui conferimenti di capitale di cui agli artt. 2, 3 e 5 della Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con il quarto motivo il ricorrente solleva, in subordine, la questione pregiudiziale di interpretazione degli artt. 2, 3 e 5 della Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con il quinto motivo il ricorrente si duole, in ulteriore subordine, della violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, avuto riguardo all’illegittima applicazione dell’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione in contrasto con la disciplina armonizzata sui conferimenti di capitale di cui agli artt. 7 e 8 della Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008, quanto all’aliquota applicata (dell’8%, in luogo di quella dell’1%), in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con il sesto motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 6 della Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008 (concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali), 10, comma 1, n. 4, D.P.R. n. 633/1972, 4 Parte prima della Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986e 40 D.P.R. n. 131/1986, in relazione all’illegittima applicazione dell’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione ai sensi dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, in ragione del divieto di introduzione di tributi indiretti similari all’IVA e del principio di alternatività IVA-registro.
- Con il settimo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, avuto riguardo all’illegittima applicazione di imposizione sul vincolo di destinazione al momento dell’attribuzione dei beni in trust, anche in rapporto all’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con l’ottavo motivo il ricorrente lamenta, in subordine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, avuto riguardo all’illegittima applicazione dell’imposta nei confronti del disponente che sia allo stesso tempo beneficiario del trust in ragione: a) della mancata ricomprensione dello stesso tra i soggetti passivi dell’imposta; b) dell’applicazione nei suoi confronti dell’aliquota massima dell’8% in mancanza di norma di legge applicabile; c) della insussistenza di un presupposto di capacità contributiva; d) della violazione degli artt. 23 Cost., 49 Carte dei diritti fondamentali della Unione Europea e 7 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con il nono motivo il ricorrente denuncia, in subordine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, avuto riguardo all’illegittima applicazione dell’imposta in contrasto con il principio di capacità contributiva, sì come delineato dal D.L.vo 31 ottobre 1990, n. 346e dall’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con il decimo motivo il ricorrente solleva, in subordine, la questione di legittimità costituzionale (per violazione degli artt. 3, 23e 53Cost.) dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, in ragione dell’illegittima applicazione di imposizione sul vincolo di destinazione in trust nei confronti del disponente che sia allo stesso tempo tra i beneficiari del trust.
- Con l’undicesimo motivo il ricorrente si duole della la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, per l’illegittima applicazione dell’imposta sul vincolo di destinazione in trust ad aliquota piena, senza riduzioni ed applicazione di franchigie nei confronti di disponente che sia anche beneficiario del trust, interpretata in contrasto con in parametri costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost., alla luce del tertium comparationis rappresentato dalla L. 22 giugno 2016, n. 112, nonché in ragione dell’illegittima compressione del diritto di proprietà nel quadro dell’art. 1 del protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 20.3.1952, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3), c.p.c.
- Con il dodicesimo motivo il ricorrente solleva, in subordine, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 47-49, d.l. 24 novembre 2006, n. 262, per l’illegittima applicazione dell’imposta sul vincolo di destinazione in trust ad aliquota piena, senza riduzioni ed applicazione di franchigie nei confronti di disponente che sia anche beneficiario del trust, interpretata in contrasto con in parametri costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost., alla luce del tertium comparationis rappresentato dalla L. 22 giugno 2016, n. 112, nonché in ragione dell’illegittima compressione del diritto di proprietà nel quadro dell’art. 1 del protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
- Il settimo motivo è fondato, con conseguente assorbimento dei restanti.
Secondo l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985, ratificata con la L. n. 364 del 1989, con l’espressione trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – ponendo dei beni sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato.
Tale figura assume connotazioni diverse a seconda delle modalità con cui viene istituito, delle finalità che persegue e dei soggetti che rivestono le diverse figure (settlor, trustee, guardian, ecc.).
Vi sono, però, alcuni elementi caratterizzanti comuni, i quali possono essere individuati: 1) nel nucleo causale unitario costituito dalla combinazione dello scopo di destinazione con quello, ad esso strumentale, di segregazione patrimoniale; 2) nell’attuazione del vincolo di destinazione mediante intestazione meramente formale dei beni al trustee ed attribuzione al medesimo di poteri gestori e di disposizione circoscritti e mirati allo scopo; 3) nell’attribuzione al beneficiario (ove esistente) di una posizione giuridica che non è di diritto soggettivo, ma di aspettativa o di interesse qualificato ad una gestione conforme alla realizzazione dello scopo (così, in motivazione, Cass., sez. 5, n. 16699 del 21/06/2019).
Come sopra evidenziato, il trust non è dotato di una propria personalità giuridica e il trustee è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, non in qualità di legale rappresentante del trust, ma come colui che dispone dei beni e dei diritti in esso conferiti in conformità alle istruzioni e in coerenza con lo scopo a cui il patrimonio è destinato. È pertanto evidente il carattere fiduciario del rapporto fra disponente e trustee, il quale acquista la proprietà dei beni o dei diritti conferiti nel trust, non a proprio vantaggio – perché non incrementano il suo patrimonio personale, ma restano separati e segregati -, ma per compiere gli atti di gestione (e, se previsti, di disposizione), che consentano di realizzare lo scopo per il quale il trust è stato istituito, non nell’interesse proprio, ma di terzi.
Come emerge da quanto appena evidenziato, l’istituzione del trust e la destinazione ad esso di beni o diritti non implicano, da soli, un effettivo incremento di ricchezza in favore del trustee, nei termini sopra evidenziati, e pertanto non possono costituire un indice di maggiore forza economica e capacità contributiva di quest’ultimo. I beni e i diritti non sono a lui attribuiti in modo definitivo, essendo egli tenuto solo ad amministrarli e a disporne (se richiesto), in regime di segregazione patrimoniale, in vista del trasferimento che dovrà poi compiere.
Né può ritenersi che la costituzione del trust produca un effetto incrementativo della capacità contributiva del disponente, il cui patrimonio non subisce alcun miglioramento.
E non si può neanche affermare, almeno in via generale, che, grazie alla sola costituzione del trust, i terzi beneficiari, ove esistenti, acquisiscano già un qualche incremento patrimoniale, che comporta una maggiore capacità contributiva, verificandosi tale effetto migliorativo nella sfera giuridica di questi ultimi solo quando il trustee abbia portato a termine l’attività ad esso demandata, per la quale ha ottenuto l’attribuzione strumentale e temporanea della titolarità dei beni.
La strumentalità dell’atto istitutivo e di dotazione del trust ne giustifica pertanto, nei termini indicati, la neutralità fiscale, tenuto conto che l’indice di ricchezza, al quale deve sempre collegarsi l’applicazione del tributo, non prende consistenza prima che il trust abbia attuato la propria funzione (v. da ultimo Cass., sez. 5, n. 8082 del 23/04/2020).
L’apposizione del vincolo sui beni conferiti nel trust, in quanto tale, determina l’utilità rappresentata dalla separatezza dei beni (limitativa della regola generale di cui all’art. 2740 c.c.), la quale non concreta, di per sé, alcun effettivo e definitivo incremento patrimoniale in capo al trustee, ma soltanto al beneficiario finale, ove esistente, ma in un momento successivo, quando il trust ha raggiunto lo scopo per cui è stato costituito.
Prima di questo momento, l’utilità, insita nell’apposizione del vincolo, si risolve, dal lato del conferente, in un’autorestrizione del potere di disposizione, mediante la segregazione e, dal lato del trustee, in un’attribuzione patrimoniale meramente formale, separata dai beni personali del trustee.
14.2. Il trasferimento del bene dal settlor al trustee avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del trust: detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale (cfr. art. 1 del D.L.vo n. 347 del 1990 e 4 dell’allegata tariffa, quanto all’ipotecaria, e l’art. 10, comma 2, del D.L.vo cit., quanto alla catastale; v., in tal senso, sez. 5, Sentenza n. 975 del 17/01/2018).
Invero, il trasferimento dei beni al trustee avviene a titolo gratuito, non essendovi alcun corrispettivo, ed il disponente non intende arricchire il trustee, ma vuole che quest’ultimo li gestisca in favore dei beneficiari, segregandoli per la realizzazione dello scopo indicato nell’atto istitutivo del trust, per cui l’intestazione dei beni al trustee deve ritenersi, fino allo scioglimento del trust, solo momentanea.
In particolare, la “segregazione”, quale effetto naturale del vincolo di destinazione, non comporta alcun reale trasferimento o arricchimento, che si realizzeranno solo a favore dei beneficiari, successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale (sez. 5, Sentenza n. 21614 del 26/10/2016). Ed invero la costituzione del trust – come è normale che avvenga per «i vincoli di destinazione» – produce soltanto efficacia «segregante» con riferimento ai beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee non è proprietario, bensì amministratore, e sia perché i ridetti beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari in esecuzione del programma negoziale stabilito per la donazione indiretta (artt. 2 e 11 Convenzione de L’Aja del 1 luglio 1985, recepita in I. 16 ottobre 1989 n. 364).
In siffatta evenienza non si è in presenza di un reale trasferimento imponibile, atteso che il programma negoziale di donazione indiretta prevede, ripetesi, la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua «segregazione» fino al (nel caso di specie, certus an, ma incertus quando) trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari. Per l’applicazione dell’imposta sulla successione e sulle donazioni manca quindi il presupposto impositivo della liberalità, alla quale può dar luogo soltanto un reale arricchimento mediante un reale trasferimento di beni e diritti (art. 1 D.L.vo n. 346/1990).
Nemmeno può condividersi l’interpretazione letterale dell’art. 2, comma 47 ss., d.l. n. 262/2006 (che, nell’istituire l’imposta sulle successioni e donazioni, ha previsto che «sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione, secondo le disposizioni del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54»), adottata da risalenti e ormai isolate ordinanze di questa Corte sez. VI (il riferimento è, in particolare, a sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3886 del 2015, richiamata nella sentenza qui impugnata), al cui avviso sarebbe stata istituita un’autonoma imposta «sulla costituzione dei vincoli di destinazione» disciplinata mercé il rinvio alle regole contenute nel D.L.vo n. 346 cit. ed avente come presupposto la loro mera costituzione. In verità, neanche il dato letterale autorizza una tale conclusione, giacché ex art. 12, comma 1, disp. prel. c.c. «il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» è proprio invece nel diverso senso che l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni, alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i «vincoli di destinazione», con la scontata conseguenza che il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dall’art. 1 D.L.vo n. 346 cit. del reale trasferimento di beni o diritti e, quindi, del reale arricchimento dei beneficiari.
Quella che, in realtà, emerge chiara dall’art. 2, comma 47 ss., D.L.vo n. 262 cit. è la preoccupazione – nei più esatti termini di cui all’art. 12, comma 1, disp. prel. c.c., sarebbe «l’intenzione del legislatore» – di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.L.vo n. 346 cit. potesse condurre alla esclusione di qualsivoglia imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari, quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di «recente» introduzione come quella dei «vincoli di destinazione» e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto «vecchio» D.L.vo n. 346 cit. Questa sembra essere l’interpretazione non solo logicamente più corretta, ma anche l’unica costituzionalmente orientata ex art. 53 Cost.
In quest’ottica, l’istituzione di un trust ed il conferimento in esso di beni che ne costituiscono la dotazione sono atti fiscalmente neutri, in quanto non danno luogo ad un passaggio effettivo e stabile di ricchezza, ad un incremento del patrimonio del trustee, che acquista solo formalmente la titolarità dei beni, per poi trasferirla al beneficiario finale, sicché non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006, conv. in L. n. 286 del 2006, che sarà dovuta, invece, al momento del trasferimento dei beni o diritti dal “trustee” al beneficiario; solo questa interpretazione è conforme ai principi delineati dall’art. 53 Cost., secondo cui l’imposizione non deve essere arbitraria ma ragionevole, connessa ad un effettivo indice di ricchezza (in questi termini, sez. 5, Sentenza n. 29507 del 24/12/2020).
Pertanto, nell’ambito concettuale dei negozi costitutivi di vincoli di destinazione sono senza dubbio compresi gli atti di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c., come pure qualsiasi atto volto alla costituzione di patrimoni vincolati ad uno scopo, e dunque anche l’istituzione di un trust (v. infra), ma ciò non è sufficiente a giustificare l’applicazione dell’imposta in questione, perché deve operarsi un effettivo trasferimento di ricchezza, che sia indice di un’acquisita maggiore capacità contributiva.
14.3. Come sopra evidenziato, tenendo come parametro l’art. 53 Cost., occorre circoscrivere l’applicazione dell’art. 2, comma 47, cit., correlandola, in senso restrittivo, al rilievo della capacità contributiva comportata dal trasferimento del bene, sicché, quando il conferimento costituisce un atto sostanzialmente neutro, che non arreca un reale e stabile incremento patrimoniale al beneficiario meramente formale della attribuzione, resta esclusa la ricorrenza di un trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta (così da ultimo Cass., sez. 5, n. 1131 del 17/01/2019; v. anche Cass., sez. 5, n. 11401 del 30/04/2019, in tema di trasferimento dal mandante al mandatario di un bene immobile oggetto di mandato a vendere).
Pertanto, in questa materia, né l’istituzione del trust e né il conferimento in esso dei beni che ne costituiscono la dotazione integrano, da soli, un trasferimento imponibile, costituendo invece atti neutri, che non danno luogo ad un passaggio effettivo e stabile di ricchezza (così Cass., sez. 5, n. 19167 del 17/07/2019; Cass., sez. 5, n. 16699 del 21/06/2019).
In sintesi, il trustee acquista sì la proprietà dei beni conferiti nel trust, ma non gode delle facoltà tipiche del proprietario e non acquisisce alcun vantaggio per sé, assumendo la titolarità di tali beni solo per poter compiere gli atti di gestione e di disposizione necessari al raggiungimento dello scopo per cui il trust è stato istituito.
Il trasferimento dei beni al trustee avviene pertanto in via strumentale e temporanea e, in conformità all’orientamento già espresso da questa Corte, sopra riportato, non determina effetti traslativi in favore del trustee, nel significato rilevante ai fini dell’imposizione, quale effettivo e stabile passaggio di ricchezza, poiché non comporta l’attribuzione definitiva dei beni a vantaggio di quest’ultimo, che è tenuto solo ad amministrarli e a custodirli e, a volte, a venderli, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del perseguimento dello scopo del trust.
14.4. L’orientamento da ultimo riportato si è ormai consolidato negli ultimi anni.
E così sez. 5, Sentenza n. 8082 del 23/04/2020 ha affermato, in un caso di trust cd. autodichiarato, ove non ricorreva il presupposto del reale arricchimento mediante effettivo trasferimento di beni e diritti, in quanto il disponente aveva beneficiato i suoi discendenti o sè stesso, se ancora in vita, al momento della scadenza, che “In tema di imposta di donazione, registro e ipocatastale, la costituzione del vincolo di destinazione di cui all’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, conv. in L. n. 286 del 2006, non costituisce autonomo presupposto impositivo, essendo necessario un effettivo trasferimento di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale”.
Dal canto suo, sez. 5, Sentenza n. 19167 del 17/07/2019 ha ribadito che “In tema di trust, l’imposta sulla successione e donazioni, prevista dall’art. 2, comma 47, del d.l. n. 262 del 2006 (conv. con modif. dalla l. n. 286 del 2006) anche per i vincoli di destinazione, è dovuta non al momento della costituzione dell’atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, fiscalmente neutri in quanto meramente attuativi degli scopi di segregazione ed apposizione del vincolo, bensì in seguito all’eventuale trasferimento finale del bene al beneficiario, in quanto solo quest’ultimo costituisce un effettivo indice di ricchezza ai sensi dell’art. 53 Cost.” (conf. sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13 del 04/01/2021).
Da ultimo, merita di essere segnalata sez. 5, Sentenza n. 16699 del 21/06/2019, secondo cui “Poiché ai fini dell’applicazione delle imposte di successione, registro ed ipotecaria è necessario, ai sensi dell’art. 53 Cost., che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante un’attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale, nel “trust” di cui alla L. n. 364 del 1989 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja 1° luglio 1985), detto trasferimento imponibile non è costituito né dall’atto istitutivo del trust, né da quello di dotazione patrimoniale fra disponente e trustee in quanto gli stessi sono meramente attuativi degli scopi di segregazione e costituzione del vincolo di destinazione, bensì soltanto dall’atto di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario”.
- Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso merita accoglimento con riferimento al settimo motivo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel senso di accogliere il ricorso originario del contribuente.
L’essersi l’orientamento di questa Corte in ordine alla (non) assoggettabilità del trust all’imposta sulle donazioni e successioni consolidato solo successivamente all’introduzione del presente grado di giudizio giustifica la compensazione integrale delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
accoglie il settimo motivo, rigetta i primi due, dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario del contribuente; compensa integralmente le spese dell’intero giudizio.